Hai mai sentito parlare di Crowdworking?
Se vado indietro nel tempo con la memoria e penso alle prime esperienze lavorative, mi tornano in mente due attività principali che svolgevo circa una quindicina di anni fa:
- le prime attività da Promoter di prodotti tecnologici, nei centri commerciali;
- le attività di mystery shopping, principalmente nella Grande Distribuzione (supermercati).
Sono due attività differenti, il promoter fa un lavoro tutto sommato “classico”, cercando di intercettare i clienti per mostrare nuovi prodotti o proporre prove o degustazioni, con una modalità promozionale palese.
Il mystery shopper, invece, non deve promuovere o vendere, ma deve osservare, annotare e verificare una serie di parametri del negozio, in maniera quasi sempre “nascosta”, senza farsi notare.
Solitamente si configura come un’esperienza di acquisto in store, che viene condotta per monitorare una serie di parametri relativi a qualità, pulizia, cortesia, etc.
Sono due lavori differenti ma già allora avevano un punto in comune che, per l’epoca, era rivoluzionario: in entrambi i casi mi ero iscritto a un portale online, avevo fatto richiesta / prenotazione di determinati lavori nella mia zona geografica.
Mi erano stati assegnati, li avevo svolti e poi avevo compilato le informazioni ricavate frutto del mio lavoro, sempre online.
Non ho mai incontrato i miei datori di lavoro fisicamente; di rado li ho sentiti al telefono.
Oggi questo modus operandi nel lavoro ha un nome: Crowdworking.
Crowdworking significato
Il crowdworking deriva dal crowdsourcing, di cui riporto la definizione tratta da E. Estellés-Arolas-F. Gonzáles-Ladrón-De-Guevara, Towards an integrated crowdsourcing definition, in Journal of information science, 9 marzo 2012:
Il crowdsourcing è una tipologia di attività online partecipativa nella quale un individuo, un’istituzione, un’organizzazione no-profit o un’azienda propone ad un gruppo di individui dotati di varie conoscenze, eterogeneità e numero, mediante un annuncio aperto e flessibile [solitamente online], la realizzazione libera e volontaria di un compito specifico. La realizzazione di tale compito, di complessità e modularità variabile, e nella quale il gruppo di riferimento deve partecipare apportando lavoro, denaro, conoscenze e/o esperienza, implica sempre un beneficio per ambo le parti. L’utente otterrà, in cambio della sua partecipazione, il soddisfacimento di una concreta necessità, economica, di riconoscimento sociale, di autostima, o di sviluppo di capacità personali; il crowdsourcer d’altro canto, otterrà e utilizzerà a proprio beneficio il contributo offerto dall’utente, la cui forma dipenderà dal tipo di attività realizzata”.
Approfondimento: http://www.ipsoa.it/~/media/Quotidiano/2018/07/28/il-crowdworking-tra-opportunita-e-rischi/Barraco_DPL%20pdf.pdf
I riders dei vari servizi di consegna di cibo a domicilio, oggi, lavorano con il crowdworking, all’interno di un modello produttivo di digital labour on demand. Siamo in piena Gig Economy, che piaccia o meno, ossia un’economia caratterizzata dalla prevalenza di lavoratori liberi professionisti/freelance o con contratti a breve termine e, contestualmente, da una costante diminuzione del numero di occupati impiegati in maniera stabile.
Il Crowdworking oggi
Il mondo del lavoro è mutato radicalmente con internet; ma non si tratta (per lo meno, non solo) di “lavoretti” da fare part time, il fenomeno anche in Italia è super radicato, secondo la Fondazione Rodolfo Debenedetti che ha cercato di inquadrare la realtà, ci sarebbero circa 700.000 gig-workers italiani oggi.
Il 2,5% della popolazione in età da lavoro si mantiene (anche) con lavori difficilmente inquadrabili dagli attuali contratti, con forme ibride tra lavori autonomi e subordinati.
L’evoluzione maggiore: quanto si guadagna?
Se circa 15 anni fa si trattava veramente di “mance” o poco più, oggi la faccenda qualche volta cambia: chi è specializzato in lavori particolari può trovare task e lavori anche ben remunerati in una delle numerose piattaforme esistenti (freelancer.com, upwork, twago, top coder, etc), ma c’è spazio anche per chi ha buona volontà.
È il caso di crowdville.net, ad esempio, piattaforma emergente che premia gli utenti con compensi monetari che possono raggiungere complessivamente anche i 500 euro al mese (di media) per svolgere una serie di mansioni facili da casa come rispondere a un sondaggio, testare un sito o una nuova app, provare un servizio e rispondere a qualche domanda (mystery client, di fatto).
Non si tratta più di “lavoretti”, la notizia è che ci si può “campare”, se si è in grado di comporre la propria giornata lavorativa, anche se la configurazione più frequente, ad oggi, è quella di “lavori part-time”, per arrotondare.
Il Crowdworking domani
La Gig Economy, però, abbisogna di un urgente intervento della legge: si rincorrono infatti le notizie delle scarse tutele e del traballante futuro che può avere un “crowdworker a tempo pieno”.
Va garantita infatti la stabilità dei rapporti di lavoro, delle retribuzioni dignitose e pure un assoggettamento fiscale dei datori di lavoro trasparente e chiaro.
Spunti interessanti lungo questa direzione provengono dalla sentenza della Corte di Appello di Torino 11 gennaio 2019 che ha riconosciuto, ex art. 2 D. Lgs. 81/2015, ai riders che consegnano il cibo a domicilio il diritto a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata a favore dell’app sulla base della retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti subordinati del V livello CCNL logistica trasporto merci, senza tuttavia qualificarli come subordinati.
Al momento, dunque, è una buona opportunità per chi cerchi qualche introiti extra o attività semplici part-time; ma attenzione a non sprecare e a regolamentare un modello che può essere una positiva metamorfosi del mondo del lavoro (o un boomerang socialmente catastrofico).
Articolo di: Luca Crivellaro